mercoledì 7 settembre 2011

La violenza in TV

La presenza della violenza in programmi televisivi destinati ai bambini o cui i bambini sono esposti ha provocato un esteso dibattito nell’opinione pubblica, caratterizzato anche dall’intervento di esperti e associazioni. La quantità più consistente di violenza è presente nella fiction. In molti casi questo comporta programmi (cartoni, film, telefilm) in cui le azioni dei personaggi possono trasmettere l’idea che la violenza può essere “allegra” o “comica”, oppure che è lecito farne uso per risolvere le controversie.
Autori come Condry e Clark ritengono che la TV possa generare fobie e visioni distorte della realtà sociale, addirittura “insegnare” comportamenti violenti  e una sorta di insensibilità alla presenza della violenza nella società. Una cosa su cui gli studiosi sono concordi è che l’eccessiva esposizione a spettacoli violenti, ha sui bambini effetti più consistenti, anzitutto per la difficoltà, da parte dei più piccoli, di elaborarne il significato attraverso la comprensione dell’intero tessuto narrativo in cui è inserita: i bambini tendono a vedere la scena di violenza come evento a se stante, senza integrarla con il prima e il poi del racconto che può spiegarla; hanno meno chiari i rapporti causa ed effetto, realtà e fantasia, ciò che è socialmente accettabile e ciò che non lo è. Es: lottatori di wrestling che fanno mosse spettacolari, ci sono stati casi di bambini che hanno poi fatto nel gioco tali mosse facendosi molto male. Sul ring i muscolosi lottatori di questo sport-show di stuntman professionisti, fingono sostanzialmente di colpirsi, i colpi sferrati sono un inganno, ma i piccoli imitatori non percepiscono la finzione e, soprattutto, non hanno la stessa capacità di controllo. Così i “combattimenti” tra amichetti e fratellini possono facilmente finire tra lacrime e incidenti. Il problema è che il wrestling, per la sua semplicità e per la sua spettacolarizzazione, piace proprio ai bambini e sui bambini punta l’enorme macchina economica che vi gira intorno (figurine, i dvd, le t-shirt, i pupazzetti, i calendari, i videogiochi e gli spettacoli dal vivo).
Smack Down”, il programma che andava in onda ogni sabato sera alle 20,10 sul Italia 1, infatti faceva una media di ascolti di oltre due milioni di spettatori: ben il 34% erano di età compresa tra gli 8 e i 14 anni e il 20,6% addirittura bambini dai 4 ai sette anni. In casa ma anche a scuola, sempre più spesso il passatempo preferito è infatti quello di imitare questi lottatori grandi come armadi che si muovono come in un videogame: si insultano, urlano e aizzano il pubblico e, soprattutto, fanno a botte violentemente (testate, calci in faccia, colpi proibiti). Ma quello che purtroppo spesso sfugge ai ragazzi, è che non si tratta di uno sport reale e di vera lotta, ma solo di uno spettacolo messo in scena da finti lottatori. www.guidagenitori.it) 
E’ stato infatti ampiamente dimostrato come l’esposizione prolungata a scene violente in televisione porti i bambini a mettere in pratica atteggiamenti distruttivi e pericolosi. Non è una regola, ma è certo che, se un bambino vede spesso film in cui la violenza è così acclamata, anche la sua percezione di essa e delle possibili conseguenze di certi atti è modificata. Un bambino non distingue la finzione dalla realtà e spesso anche con i suoi amici può scambiare un gioco violento per la normalità. I bambini hanno bisogno di essere guidati e hanno bisogno di qualcuno che spieghi loro cosa è giusto e cosa è sbagliato: questo è il ruolo dei genitori.

venerdì 28 gennaio 2011

Effetti della pubblicità sui bambini

Gli studi psicologici si sono spesso concentrati sugli effetti della pubblicità commerciale sui bambini, visti anche i risvolti sociali, pedagogici e morali impliciti nel tema. I bambini sono attratti dalla pubblicità televisiva per molteplici motivi: la brevità spazio-temporale dei messaggi, la semplicità e familiarità delle situazioni, la chiarezza e suggestione delle proposte, la stessa ripetitività dei contenuti. Gli esperti di comunicazione di massa, hanno constatato che i bambini sono in grado di spingere gli adulti all’acquisto di prodotti per sé (come dolci, abiti e giocattoli), ma anche per un più esteso uso famigliare, come le automobili. Lo studio del rapporto fra pubblicità e bambini, si è rivolto soprattutto al modo in cui questi ultimi interagiscono con gli spot televisivi. I bambini tendono infatti a memorizzare con grande facilità il contenuto degli spot, data la corrispondenza del linguaggio audiovisivo con determinate modalità cognitive presenti nell’età evolutiva.
La pervasività  della pubblicità commerciale televisiva, comporta il rischio che i bambini acquisiscano dagli spot visioni stereotipate, semplificate o favolistiche, una socializzazione anticipata a comportamenti adulti e modalità di consumo, stili comportamentali basati sulla rapidità e sul materialismo. Molte di queste pubblicità tendono ad entrare in conflitto con la realtà, portando i bambini a pretendere molto dai genitori e a rimanere delusi se non si ottengono gli stessi doni, che hanno invece ricevuto i bambini negli spot televisivi. Infatti, si sviluppa l’idea nel bambino, che il papà ideale è quello che tornando a casa lo riempie di giochi e di cose costose, questo si scontra con la realtà dove solitamente il padre torna a casa stanco dal lavoro oppure non ha le possibilità economiche per fare certi regali.

Una ricerca condotta in Italia all’inizio degli anni Novanta dalle psicologhe Anna Oliverio Ferraris e Tiziana Grant, ha dimostrato che la comprensione degli spot e del loro scopo, sono soggetti ad evoluzione: solo verso gli undici anni, è presente nella maggioranza dei bambini la consapevolezza che gli spot sono messaggi finalizzati a persuadere a un comportamento di consumo, mentre precedentemente prevale l’idea di una funzione informativa o, in età prescolare, di una funzione di “intermezzo”(gli spot servirebbero,secondo i bambini interpellati: al riposo dei protagonisti degli spettacoli televisivi, per fare una sosta, per dare il tempo a chi guarda di andare a fare la pipì o sparecchiare, per ridere,…). Inoltre, se in una pubblicità compare un “eroe” dello sport o un “idolo” dello spettacolo che il bambino ammira, il fatto di sapere che il proprio eroe-idolo è stato pagato per reclamizzare un certo prodotto, finisce per essere psicologicamente meno rilevante, meno presente all’attenzione dello spettatore in quel momento, di quanto non sia il piacere di vedere il personaggio sullo schermo.

Bambini e teledipendenza

La televisione è oggi, insieme forse ad Internet, il medium di cui si discute di più non solo nella ricerca specialistica ma anche nelle opinioni della gente comune. La riflessione delle scienze socio-umane sul rapporto fra la TV e i suoi pubblici ha avuto frequentemente al centro l’indagine sulla fruizione da parte dei bambini, anzitutto per le polemiche legate alla percezione di un loro uso massiccio e indiscriminato del mezzo favorito o comunque non controllato dai genitori.
La psicologa Anna Oliverio Ferraris , osserva come la TV possa avere importanti effetti positivi. Un uso moderato del medium e con i programmi adeguati può potenziare le competenze linguistiche dei bambini, specie se questi ultimi vivono in ambienti culturalmente poveri di stimoli; programmi “a misura di bambino” possono incentivare l’attività e la creatività, proponendo nel contempo valori positivi; determinati serial, cartoni e telefilm possono fornire modelli e conoscenze utili per una socializzazione positiva. La TV, inoltre, abitua a seguire narrazioni complesse, fornisce molte informazioni e conoscenze, insegna a risolvere problemi e tratta tematiche, come i sentimenti, di grande rilevanza psicologica, che aiutano a sviluppare un atteggiamento empatico.

Secondo autorevoli psicologi, tuttavia, i bambini lasciati soli e per lungo tempo davanti alla TV si abituano a ricevere passivamente stimoli emotivi “forti”, e tendono a usare il medium come modo prevalente per conoscere determinati aspetti del mondo. Allo stesso tempo, possono valersi della TV come compensazione delle carenze affettive, della comunicazione e della presenza interpersonale, del gioco o dell’ambiente esterno. I bambini teledipendenti, possono così sviluppare una “cultura a mosaico” frammentaria e priva di criteri di orientamento, possono soffrire di stress da iperstimolazione e diventare obesi, possono avere difficoltà di apprendimento o percezione. Inoltre vengono presto socializzati al consumismo ed esposti ad una serie di spettacoli contenenti violenza o valori negativi, per questo, educare i minori all’uso critico dei mass-media, è compito primario della famiglia.